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Nei giorni scorsi il Tribunale di Cuneo ha condannato il 46enne A. R., accusato di essersi finto commercialista al fine di raggirare una vedova in condizioni finanziarie disastrose. L’accusato ha riportato una condanna a due anni e tre mesi di reclusione, più la misura aggiuntiva del soggiorno in casa di lavoro per almeno altri due anni. Alla parte civile, inoltre, dovrà risarcire la somma di duemila euro. L’uomo è stato invece assolto, con formula piena, dall’accusa di truffa.
Alcuni anni fa alla morte del marito, che aveva un’azienda artigiana, la moglie aveva scoperto di avere un debito, pari a 437.000 euro, con l’Agenzia delle Entrate che non era stato pagato al fisco. Impossibilitata a reperire la somma, la signora aveva contattato l’imputato, a quell’epoca titolare di un’agenzia di disbrigo pratiche nella nostra città, che l’aveva indirizzata verso un finanziamento che le avrebbe permesso di respirare, economicamente parlando. Ma quando la vedova aveva ottenuto il prestito A.R. l’aveva convinta ad affidarglielo, dietro a una “fattura di copertura”, con la scusa di far sì che non andasse al fisco. «Ha sempre detto di essere un commercialista o un consulente del lavoro» ha detto la vedova, dopo averlo denunciato. Quando però aveva chiesto la restituzione del prestito, in tutto 5.000 euro, «A. R. si era presentato con un panno al cui interno c’era una pistola – ha raccontato in aula –. E mi ha detto: ho già gambizzato mio fratello, non ho problemi a farlo con tuo figlio». La donna aveva così sporto denuncia; i Carabinieri perquisendo l’alloggio dell’uomo, avevano trovato una pistola giocattolo, senza però il tappo rosso tipico delle armi giocattolo.
Il Pubblico ministero ha aggiunto che il presunto commercialista, con alcuni precedenti specifici, non aveva fatto nulla per aiutare la sua cliente. A riprova ha portato il fatto che nessun accesso a suo nome risultava presso l’Agenzia delle Entrate, in un periodo in cui, a causa delle restrizioni Covid, gli uffici erano accessibili solo con appuntamento. Il Pm ha chiesto la condanna a tre anni sul presupposto che la donna si era fidata dell’imputato che invece l’aveva spogliata completamente, facendole addirittura credere che avrebbe ottenuto una pensione di reversibilità dall’Inps a cui in realtà non aveva ancora diritto.
Per il difensore dell’imputato, invece, non sarebbe stato dimostrato l’esercizio abusivo della mediazione creditizia o della professione di commercialista.