«Con l’inverno i migranti rischiano l’assideramento»

Seconda parte del racconto di Maria Gabriella Asparaggio sul rifugio di Oulx

A Oulx in fila per le merendine
A Oulx in fila per le merendine

È domenica 12 novembre. A Savigliano c’è un pallido sole, invece a Oulx, in alta Val di Susa – dove ci dirigiamo per portare cibo, guanti, passamontagna, scarponi adatti a camminare sui sentieri innevati, zaini, il tutto donato da benefattori saviglianesi – piove e le pendici delle montagne sono ormai innevate.

Raggiungiamo il rifugio Massi appena in tempo per fornire le merendine ai primi giovani che partono per Claviere da dove, nottetempo, proveranno a raggiungere la Francia. Generalmente riescono a passare al primo tentativo, qualcuno al secondo; i pochissimi ancora respinti dalla polizia di frontiera, riproveranno con il terzo.  Chi non riuscirà nemmeno in questo caso cercherà altre vie, ad esempio tenterà da Ventimiglia, anche se là sarà durissima.

Al guardaroba ritrovo Sofia, una volontaria. È indaffarata: sta vestendo i giovani prima che prendano l’autobus. È una donna di polso, ferma, decisa, che ho visto dirimere controversie e litigi sorti dalla fame, dalla necessità di salire su quell’autobus, per non perdere il turno e farsi altri chilometri a piedi, o aspettare la volta successiva. La osservo. Noto che tratta le persone che ha di fronte con rispetto. Adesso che è arrivato il freddo controlla con attenzione che tutti siano ben coperti, perché la montagna, come il mare, uccide. Raggiungiamo il piazzale davanti alla stazione ferroviaria. I ragazzi, silenziosi, si dispongono in fila indiana per ricevere due merendine ciascuno. Individuo subito due minorenni. C’è chi cerca di passare loro davanti, ma viene redarguito e spedito verso il fondo. Poi arriva l’autobus. Questa volta giunge un autista che si rivela buono, perché, anche se è arrivato in ritardo, non l’ha fatto apposta, come capita invece ad altri, ha il resto per ogni il biglietto e dà il tempo per salire a tutti e trenta i ragazzi. Uno rimane in strada. Non ha i soldi. Gli compro il biglietto, perché la delusione di vedere tutti gli altri salire per tentare il sogno della speranza, mentre lui se ne resta lì, sotto la pioggia, è troppo intensa. Sale contento e mi ringrazia: “Che Allah ti aiuti”. Se la traversata andrà in porto, in Francia, a Briançon, si cambieranno gli abiti e mangeranno un pasto caldo, perché è appena stato riaperto il rifugio Terrasse di cui ho già trattato in un precedente articolo su questo giornale.

Approfitto di una pausa per intervistare Sofia che è appena tornata dai campi profughi della Bosnia. Sono più di dieci anni che si dedica al volontariato nei campi per rifugiati dell’Est in Grecia, Turchia, Serbia e Bosnia. È appena rientrata da quello tristemente noto di Lipa, in Bosnia Erzegovina, isolato dal mondo, perché si trova a 25 km da Bihać (cittadina di 30 mila abitanti) e a 16 km dal confine croato, sulla rotta balcanica, lontano dagli occhi dell’Europa e fuori dai suoi confini. Il campo, costruito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, è finanziato dall’UE e da Austria, Svizzera, Italia e Vaticano; può ospitare fino a 1.500 persone. Ai primi di novembre, riferisce Sofia, ce n’erano più di 1000. È stato riaperto il 19 novembre 2021, dopo che un incendio nel dicembre del 2020 l’aveva distrutto. Secondo i dati di Frontex hanno percorso la rotta dei Balcani Occidentali tra gennaio e ottobre 2023 più di 97.300 persone. Sono soprattutto afghani, siriani e turchi, a cui si aggiungono individui provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana che aspirano ad entrare nella “fortezza” Europa che li ferma. La Croazia li respinge, mentre la Bosnia, desiderosa di entrare nell’UE, li trattiene contenendoli con minori spese. C’è chi arriva con l’aereo direttamente in Serbia, altri invece a piedi dalla Turchia o dalla Grecia. Lipa è una tappa per chi tenta e ritenta il “the game”, cioè il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto pur di arrivare.

Negozio davanti al campo di Lipa

Chiedo a Sofia se è vero che il campo di Lipa è recintato e non si possono scattare fotografie; che ci sono regole di accesso stringenti; che non si può parlare liberamente con chi è ospitato; che adesso c’è una cucina dove chi vuole può prepararsi il cibo da solo; che in fondo al campo c’è la lavanderia; che le persone vivono nei container, gelidi in inverno e afosi d’estate…

«Sì, anche se adesso la situazione nel campo è un po’ migliorata, perché i servizi essenziali sono garantiti. Resta il fatto che è un campo da cui si può uscire e, se il “game” va storto, si può rientrare. All’esterno c’è un negozietto dove comprano un po’ di cibo, dentifricio, sapone, ma i prezzi sono alti, ad esempio un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. Per parlare coi ragazzi ci siamo spostati nel bosco, perché le guardie del campo non gradivano che ci intrattenessimo con gli “ospiti”».

Come fanno a passare il confine e a spostarsi?

In giro sono diventati invisibili, ma ce ne sono tanti. Bisogna sapere che stanno nascendo nuovi” game”, cioè nuove rotte. Non li vedi più per la strada, perché o sono nei campi di Lipa, Borići (campo famiglie 350 posti), Bihać (350 posti), Sarajevo (800 persone) o comprano il passaggio dai trafficanti e, per quanto sia ingiusto e sbagliato finire nelle mani di questa mafia, non hanno un’altra soluzione e, fatto contingente, è che chi paga sta meglio, perché impiega due mesi a entrare in Europa anziché due anni. Questa economia nera è una schifezza, però il risultato pratico è che loro sono fisicamente meno devastati e la loro salute mentale ci guadagna. Ultimamente la situazione sta di nuovo peggiorando, perché si stanno di nuovo incrementando i respingimenti.

Quando passano? Quale speranza di riuscita hanno?

Ultimamente la polizia di frontiera croata è di nuovo diventata spietata: è la peggiore. Solo un mese fa, le persone riuscivano a passare con maggiore facilità e a raggiungere Zagabria o Fiume per poi continuare verso la Slovenia, ma la gli abitanti dei posti di frontiera si è lamentati, così si è tornati al vecchio atteggiamento violento e brutale tristemente noto per chi vuole sentire. Passano di notte come a Oulx. Adesso che arriva l’inverno il rischio è di morire assiderati, di essere picchiati, derubati o rimanere fermi. C’è chi ha provato anche sette volte a passare. I respingimenti alle frontiere fanno automaticamente salire il numero degli “ospiti” nei campi. A Oulx domandiamo loro come sono giunti fin qui, per ripercorrere a ritroso il loro cammino e intervenire a monte, affinché non debbano soffrire ulteriormente. A Bihać s’incontrano al supermercato e poi si dileguano. Un “game” per Vienna può costare circa 1500 euro. Probabilmente attraversano il confine a piedi e, se riescono a superarlo, vengono recuperati dai passeur in seguito. Fino a settembre, generalmente, riuscivano a sconfinare, adesso, con il susseguirsi delle chiusure di Schengen, a cui si è aggiunta quella dell’Italia, bisognerà capire come si evolverà la situazione.

Hai visitato qualche altro campo?

Sì, dopo Lipa sono stata a Borići. È un campo riservato alle famiglie e ai minori non accompagnati. Qui c’erano circa 800 persone. Ho visto gente dell’Africa sub-sahariana e del Bangladesh. Qui si insegna ai bambini la lingua e l’impressione è che si stia meglio rispetto a Lipa. Come a Oulx ogni sera cercano di sconfinare arrivando il più vicino possibile alla frontiera con gli autobus e i taxi.

C’è qualcosa di particolare che ti ha colpita nel loro modo di spostarsi?

Sì. A Bosanska Gradiška, nel nord della Bosnia, tentano di entrare in Croazia attraversando la Sava, perché qui è più facile da guadare, per cui comprano dei canottini, oppure affittano delle barchette dai residenti o ancora, in estate, tentano il passaggio a nuoto. Purtroppo in molti affogano.

 Qual è il lascito peggiore che ti è rimasto della tua esperienza?

Vedere morire la gente a causa delle frontiere.

 E cosa ne hai tratto di positivo?

Un “figlio” siriano. Nel maggio del 2017, nel campo di Chios, in Grecia, ho conosciuto Mouhalam e mi sono affezionata, così ho portato a casa ai miei tre figli un “fratellino” minore. [La voce di Sofia si incrina, l’emozione fa breccia sul suo volto, le si inumidiscono gli occhi, ma non si ferma, continua a raccontare]. Ha la stessa età del mio Tommaso con cui ha legato tantissimo, al punto che talvolta fanno ancora le vacanze assieme. Mouhalam è del ’99. È un ragazzo sveglio: parla arabo, turco, inglese e tedesco. Con la guerra ha perso sette anni di scuola, ma in Germania, dove adesso vive con i suoi genitori, ha avuto la possibilità di studiare e di trovare un lavoro.

Cos’è che ti ha spinta a favorirlo?

A volte penso che se i miei figli si trovassero in quelle situazioni desidererei tanto che incontrassero qualcuno disposto ad aiutarli, proprio come ho fatto io con Mouhalam. Qualcuno che li sostenesse, che si prendesse cura di loro nei momenti più difficili, proprio quando, lontano dalla famiglia e dagli amici, si è più fragili e bisognosi di cure e di affetto.

La volontaria Sofia mentre consegna merendine

È giunto il momento di tornare al rifugio. Qui lei prepara altri ragazzi per la partenza successiva, mentre io scendo a Susa per una nuova intervista a due simpaticissime e anziane suore che collaborano con il Massi e con don Chiampo. Ripenso alla testimonianza di Sofia e ai numerosi volontari che via via sto incontrando, alla loro dedizione, a quello che fanno in sordina. Comprendo appieno solo adesso quanto sia sottile e facile da oltrepassare la linea di demarcazione che conduce all’illegalità, a compiere semplici gesti che possono risultare dei reati, ma che, se visti in un’altra ottica, sono in realtà “buone” azioni, compiute da chi viene trasportato dall’umana compassione.  

di Maria Gabriella Asparaggio

Exit mobile version