Faccia a faccia con il “muro di gomma” [FOTOGALLERY]

Al rifugio Massi di Oulx passano i viaggi della speranza verso la Francia

È la prima domenica di ottobre. Salgo in auto con mio marito per recarmi in alta Val di Susa, con l’intenzione di guardare fuori dal finestrino con occhi diversi. A Oulx c’è un gran fermento: una folla di gente festosa è richiamata dall’annuale “Fiera Franca”, giunta alla sua 529^ edizione. Il suo nome deriva da un fatto storico: nel 1494 transitarono da Oulx gli eserciti di Carlo VIII diretti alla conquista del Regno di Napoli. Le schiere del re imposero sacrifici enormi alla popolazione, per cui il sovrano decise di ricompensare gli abitanti permettendo loro di tenere in estate una Fiera Franca, cioè libera da tasse foranee. Il suo nome “Franca” sembra quasi un inno alla libertà di movimento, che però non è per tutti. Poco più in là scorre parallela la vita di altre persone meno fortunate, nate e cresciute nel posto sbagliato. Ci dirigiamo presso il Rifugio Fraternità Massi, aperto nel 2018 su iniziativa del sacerdote don Luigi Chiampo, per ospitare i migranti per un massimo di tre notti. Provengono prevalentemente dalla rotta balcanica e dall’Africa, benché siano transitati anche ucraini allo scoppio del conflitto. Qui ricevono dai volontari acqua, cibo, medicine, consigli e supporto.

Su un lato dell’ingresso è affisso un cartello con un elenco delle cose che servono. Il portone è aperto: mi affaccio, vedo capannelli di giovani uomini neri in partenza. Sto per entrare quando esce Piero Gorza, uno dei responsabili. È un insegnante in pensione, antropologo e scrittore, attivo presso il ricovero dagli albori. Mi dice che non ha tempo da perdere: “Il rifugio è al collasso”. Piero è teso, stanco, provato. “Ne abbiamo dappertutto: in questo momento ci sono 200 persone e il rifugio ne può accogliere 80. Ieri i francesi ne hanno respinti 40. Hanno dormito ovunque. Se vuoi comprendere seguimi e osserva. Prima di scattare fotografie chiedi sempre loro il consenso”.  Ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria, perché da qui la domenica, a differenza che negli altri giorni, alle 10,40 parte l’unico autobus per Claviere. Gli altri mezzi se ne andranno alle 13,15- 15,15- 17,15, ma per questi il capolinea è Cesana, per cui i migranti percorreranno circa 7 km a piedi per raggiungere Claviere. L’ultimo è alle 19,15, ma i volontari evitano di riferirne l’esistenza per risparmiare ai ragazzi il cammino sulla strada verso l’imbrunire, per non mettere ulteriormente a repentaglio la loro vita.  L’obiettivo dei volontari è di farne partire 40 per ogni tranche, per fare spazio ai nuovi che arriveranno. Dopo pochi minuti ecco spuntare il primo gruppo. Sono tutti uomini dell’Africa subsahariana. Si mettono in coda, vengono chiamati all’appello dai volontari i quali forniscono ad ognuno una bottiglia per l’acqua, che riempiranno in un secondo tempo a una fontana, poi pagano il biglietto e salgono sull’autobus in 50. Non c’è posto per tutti. Cominciano a litigare. Intervengono i volontari e ritorna la calma. Un ragazzino prova a salire con fare simpatico e viene rispedito indietro. Li osservo. Ognuno ha una propria personalità che si manifesta in differenti comportamenti. Mi colpisce l’ultimo della fila; è un uomo con la maglia di lana grigia, dal fare remissivo, tiene la testa bassa, non spinge ed è discosto dal gruppo. Piange in silenzio. L’autobus parte con 10 minuti di ritardo. L’autista è una giovane donna sorridente e gentile che dialoga coi volontari del rifugio, che ormai conosce.

Qui incontro Serena: è anche lei come me un’insegnante ed è una volontaria che non lavora per il rifugio, ma collabora da esterna. Mi aggrego a lei. Mi spiega che adesso, con le nostre auto, dovremo dirigerci a Claviere e aspettare l’arrivo delle varie ondate, per fornire qualcosa da mangiare e da vestire ai ragazzi. Durante il tragitto mi telefona, per chiedermi di tornare a Oulx e di comprare 200 piatti e altrettanti bicchieri. Giungiamo a Claviere, ultimo comune italiano prima del confine con la Francia, quando il carico di speranza del primo autobus è già sceso. Sono giovani uomini affamati che si rifocillano con un po’ di cibo donato dai volontari. Si siedono per terra o sui gradini, alcuni sono minorenni; non avanzano nulla e non mangeranno più almeno fino al giorno seguente. Poi è la volta della scelta dei vestiti, sistemati negli scatoloni e divisi tra pantaloni, maglie, calze, coperte, scarponi, zaini e giubbotti. Questi ragazzi non conoscono la montagna, non sanno che di notte la temperatura scenderà, di conseguenza si spiega loro in francese, inglese, arabo, a seconda della lingua che parlano, di cercare indumenti pesanti. Controlliamo che tutti abbiano qualcosa per coprirsi dal vento e dal freddo. Provo a parlare con qualcuno di loro in francese. Un giovane di 16 anni mi dice che arriva dal Mali e che vuole andare in Francia dove spera di fare fortuna, anche se non ha una meta precisa e laggiù non conosce nessuno. Un altro è del Sudan. Ha attraversato anche lui il mare ed è approdato a Lampedusa, da dove, in tre giorni, è giunto al Rifugio Massi. In seguito si disperdono come formiche e aspettano la notte, quando, a cadenza di tre ogni 5 minuti, s’incammineranno tra i sentieri e i boschi, percorrendo a piedi i 20 km che li separano da Briançon, per evitare il controllo di frontiera al Colle del Monginevro, dove la Paf (Police aux frontières) li respingerebbe in Italia. Siamo in attesa che arrivi il secondo gruppo. Il loro autobus si è fermato a Cesana. Sono in ritardo. Due volontari vanno loro incontro con le rispettive auto per caricarne qualcuno; un gruppo resta in attesa sul posto; Serena e io ci incamminiamo lungo il sentiero. Per la strada raccogliamo un paio di scarponi e calzini abbandonati. Non hanno cura delle cose che vengono loro date, non si rendono conto che possono servire in un secondo tempo, perché hanno la mente rivolta al contingente, a riempirsi la pancia, alla sopravvivenza, a raggiungere la Francia. Finalmente arrivano. Quando vedono che stiamo scattando loro delle foto si bloccano spaventati, così riferiamo che è tutto a posto, che li stavamo aspettando e li conduciamo a mangiare qualcosa. Mi colpiscono la leggerezza, l’affabilità, la carica d’umanità, il sorriso, il contatto fisico della pacca sulla spalla con cui Serena li accoglie. Chiediamo loro da quanto è che marciano, perché hanno impiegato molto tempo a coprire il tragitto; questo è successo in quanto, benché giovani, non sono abituati a muoversi in montagna e le difficoltà aumenteranno per chi s’incamminerà con i rigori dell’inverno. Si rifocillano con quel che rimane, si prendono qualche vestito e decidono di non aspettare il buio: vogliono partire subito, ma a volte la fretta è cattiva consigliera. Durante la breve permanenza al rifugio si sono preparati la traversata, che hanno mappato sul cellulare. Li salutiamo angosciati e speranzosi che ce la facciano a superare il muro di gomma che li rimbalza generalmente per un paio di volte, ma solitamente al terzo tentativo riescono nell’impresa.

Ritorniamo a Savigliano col cuore pesante e con i loro visi e atteggiamenti stampati nella mente. Domenica ho ricevuto una lezione d’umanità dalla costanza e dalla tenacia dei volontari che ho conosciuto: alcuni da quattro anni, ogni domenica, sono in Val Susa a offrire un pasto a gente in fuga dalla fame, dalla guerra, che sogna un futuro simile alla maggioranza degli europei che hanno una casa, un lavoro, la possibilità di studiare e di muoversi sicuri per strada. Durante gli altri giorni della settimana manca il loro supporto. I volontari non vogliono né pubblicità, né essere fotografati. Credono profondamente in quello che fanno: oltre al supporto materiale elargiscono abbracci sinceri e sguardi di incoraggiamento, di cui questa gente ha immensamente bisogno.

In Africa negli ultimi dieci anni ci sono stati più di 500 colpi di stato e in alcuni Paesi essi hanno avuto la frequenza di due all’anno. L’origine di tutto ciò affonda nel colonialismo “nostro”, e ora si sta incancrenendo col gioco perverso di Russia e Cina che ci stanno sostituendo, così che quei popoli finiranno probabilmente dalla padella nella brace. La loro migrazione è un’arma micidiale che destabilizza l’UE, da sempre debole e poco coesa in politica estera. Non so quale sia la strada giusta da imboccare, ma sono convinta che i muri non fermeranno nessuno, solo rallenteranno gli arrivi e provocheranno la morte delle persone e la distruzione delle famiglie.

Dovremo fare anche i conti col nostro inverno demografico e con il relativo invecchiamento della popolazione, per cui sicuramente l’immigrazione in questo frangente sarà una boccata d’aria fresca nella nostra stagnazione. Credo che trovare la soluzione giusta sia un dovere umano oltre che morale e civile, nel rispetto delle persone e della loro dignità.

di Maria Gabriella Asparaggio

Exit mobile version